Referendum, il SI ci spingerebbe in fondo al baratro

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A qualcosa, almeno, sono servite le ultime fasi della campagna referendaria giacchè, tra isterismi, insulti e provocazioni, hanno messo in luce i veri obiettivi della riforma costituzionale di Renzi e soci.

Intanto, capovolgendo l’ordine abituale di ogni discorso sociologico, ossia partendo dagli aspetti di contorno, nonché di metodo, deve osservarsi la compresenza delle tre costanti che caratterizzano tutte le campagne volte al raggiungimento del plebiscito: la paura, la minaccia e l’obolo.

Paura – Se non passa la riforma, dicono i sostenitori, sarà il caos, il salto nel buio, il crollo delle banche, l’impoverimento dell’intera popolazione, magari anche i Cavalieri dell’Apocalisse (guerra, fame, peste e morte), senza dimenticare le celeberrime Piaghe d’Egitto!

Minacce – Se vince il No, aggiungono quei sostenitori, Renzi e il governo vanno a casa; quindi vuoto di potere, anarchia, sommosse e, perché no, pure nubifragi. E subito dopo il ritorno dei Tecnici – evocati come un babau da un Renzi non eletto – lo spread che vola e (udite udite) aumento della disoccupazione.

Obolo – 80 euro di qua, buoni-libri di là, gratifiche natalizie e mancette una tantum, cioè l’eterno contentino post-assistenzialista e pre-elettorale del buon tempo andato, figlio del secolare principio “del bastone e della carota”.

Ora, è appena il caso di osservare come questi tre ingredienti siano schiettamente di tipo populista, anzi, siano essi stessi il populismo della più storica e comune specie, la qualcosa è un po’ inquietante, e molto ridicola, per chi nel contempo è impegnato nella crociata contro i nuovi eretici: Salvini, Meloni, Grillo, Le Pen, Farage (quello della Brexit), l’austriaco Hofer, l’ungherese Orban e più di tutti Donald Trump!

A dirla tutta, però, è la stessa trasformazione della consultazione referendaria in plebiscito a suscitare a monte le prime e più acute perplessità sulla genuinità democratica di questa operazione che, assemblando requisiti reciprocamente eterogenei con la tecnica del “pacchetto”, finisce per tradursi nella scelta binaria tra SI e NO, più confacente al sondaggio su un detersivo che a cotanta ristrutturazione della Legge Fondamentale di un Paese.

Ma il fatto ancor più deprecabile è il modo con cui l’unico quesito del referendum è stato posto, che in maniera sin troppo sfacciata vorrebbe orientare i votanti verso il SI, come se si trattasse di uno slogan da campagna referendaria, e non del vero e proprio quesito del referendum!

«Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?».

Una gigantesca riforma, che viene banalizzata in poche righe, o forse è meglio dire trasfigurata, ponendo in evidenza quegli aspetti che più toccano le corde dei ceti medio-bassi, non in senso economico ma soprattutto culturale.

Quanti, pur sapendo poco e nulla di politica, contestano il bicameralismo perfetto, perché causa di pesantezza e di lungaggini negli iter parlamentari delle leggi? Quanti, fra quei soggetti, non auspicherebbero la riduzione dei parlamentari, anche per quel che guadagnano? Ma ancor di più, quanti non vorrebbero la riduzione dei costi della politica, e l’abbattimento di un vecchio (e inutile?) carrozzone quale è il CNEL? Tutto facile, tutto scontato. Ma poi, senza dilungarci nelle varie “dimenticanze”, quando si deve dar traccia dello stravolgimento del rapporto fra Stato e Regioni, si fa cenno soltanto al Titolo V, che sarebbe già tanto se la maggioranza degli aventi diritto al voto sapesse riconoscerlo in “Titolo Quinto” e non come “Titolo (lettera) V”.

Eccola, allora, l’essenza della ricerca del plebiscito: qui siamo sui livelli del plebiscito sull’operato del governo, cioè sull’ormai consolidata dittatura, voluto da Mussolini nel ’29!

In verità, tutte le riforme di Renzi trasudano di istituti presi pari pari dalle leggi fasciste: il premio di maggioranza “sicura”, il voto a data certa dei Ddl presentati dal governo, il Senato trasformato in Camera dei Fasci e delle Corporazioni, l’eliminazione dei corpi intermedi (province) o la loro neutralizzazione (regioni); la centralizzazione di ogni potere decisionale nella persona del Capo del Governo; la sostituzione della Rappresentanza con la Nomina e la Cooptazione; l’attacco ai sindacati come tali; le leggi antisciopero; la Scuola asservita ai presidi, e via dicendo.

Questa sarebbe la “moderinazzione” o la “innovazione”? Ma di cosa stiamo parlando? Forse di semplificazione, nella forma più becera, giacchè è ovvio che eliminando ogni organo o istituzione potenzialmente “disturbante” si semplifica tutto!

Ma perché questa riesumazione dei principi cardine dello stato fascista? Da una parte vi è certamente l’obiettivo di contenere le crepe e le fratture che si stanno aprendo nella compagine e nel tessuto sociali, a causa del cedimento della vecchia struttura statale e costituzionale, accelerato dal dilagare della disoccupazione, dei fenomeni migratori e dalla dissoluzione del modello imprenditoriale classico, che hanno portato i poteri forti alla riduzione se non alla cancellazione dei diritti individuali e collettivi, attraverso la demolizione del pluralismo degli organismi che lo rappresentano.

In un simile contesto, il ruolo del debito pubblico e del suo vertiginoso aumento diviene fondamentale, perché legittima tagli micidiali allo stato sociale, ai salari e al costo del lavoro, e al tempo stesso funge da alibi alla cessione dei suoli, dei beni comuni e delle risorse naturali alla grande finanza internazionale.

Non a caso, il buon Renzi, abitualmente tanto ciarliero, non parla mai dell’abrogazione dell’art.81 della Costituzione (obbligo del pareggio di bilancio) che strangola il Paese, salvo accennare, molto fugacemente, a futuribili ed ipotetiche modifiche dei trattati europei, che mai verranno, naturalmente.

A questo punto, è doveroso dire che l’Italia si trova attualmente sull’orlo del baratro, che non è un avventuroso salto nel buio, ma un punto di non ritorno verso una dittatura “commissaria”, persino peggiore dei regimi totalitari, stalinismo compreso, nei quali la compressione della libertà corrispondeva al benessere delle masse e, in certi casi, alla creazione della società egualitaria.

Con la riforma di Renzi si verificheranno, innanzitutto, sicure catastrofi dell’occupazione (gestita interamente dallo Stato, cioè dei gerarchi del Jobs Act 1 e 2, a cominciare dal licenziamento di 400mila dipendenti delle Regioni e annessi indotti, delle partecipate, dei dipendenti dei servizi pubblici e Camere di commercio, dalla mezzanotte del giorno 5 dicembre.

Infatti, ridotte le funzioni, diminuiscono le dotazioni organiche e trionfano i licenziamenti economici, cioè di massa!

Le trivellazioni cominceranno anch’esse da quell’ora e quella data e, grazie a contratti già firmati dal governo, saranno libere per l’intera costa della Penisola, devastando fauna, flora e fondali, e non mancheranno anche un po’ di nuove centrali nucleari, visto che nessuno potrà più opporvi veto.

Il costo del lavoro crollerà ulteriormente, facendo apparire i voucher come una ricchezza, dato che il contratto tradizionale non esisterà più, sostituito dalle tutele (de-)crescenti, dal lavoro a chiamata ed in leasing come se il lavoratore fosse un’auto.

Evitiamo, dunque, una sorte che, con tutti i suoi difetti, le debolezze, la passività e, persino, il disimpegno che gli si possono imputare, il popolo italiano non merita. No Pasaràn. Il No Pasarà.

Avv. Nicola Coco

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