Decreto Sostegni bis, 660 milioni per salvare i bilanci dei Comuni

Decreto Sostegni bis, 660 milioni per salvare i bilanci dei Comuni

Fonte: ItaliaOggi

Più fondi e più tempo per ripianare i disavanzi extra creati nei conti comunali dalla sentenza della Consulta (n.80/2021) sul Fondo anticipazioni di liquidità. La dote di 500 milioni, prevista dal testo originario del decreto legge Sostegni bis (dl 73/2021), sale a 660 milioni. E si riconosce agli enti la possibilità di ripianare dal 2021 l’eventuale maggiore disavanzo, registrato al 31 dicembre 2019 e derivante dalla pronuncia della Corte, in quote costanti entro il termine massimo di 10 anni al netto delle anticipazioni rimborsate nel 2020. Questo il punto di caduta su un tema caldo che da fine aprile agita il mondo delle autonomie, impattando sui bilanci di almeno 900 comuni, di cui 456 a rischio concreto di default. La soluzione, che dovrebbe essere messa al voto oggi in commissione bilancio della Camera e potrebbe essere ulteriormente modificata con ritocchi dell’ultim’ora, è frutto della riformulazione da parte del governo degli emendamenti ANCI al decreto legge Sostegni bis. Emendamenti in cui l’Associazione dei Comuni, oltre a chiedere più risorse (1 miliardo in totale per il 2021) rispetto a quelle che l’esecutivo sembrerebbe voler riconoscere agli enti, puntava anche a modificare il limite attualmente previsto che circoscrive la possibilità di fruire dei fondi ai soli municipi con maggiori disavanzi superiori al 10% di incidenza sulle entrate correnti.

L’ANCI aveva giudicato «del tutto arbitrario» tale paletto e aveva chiesto che venisse rimosso. Per il momento nel testo dell’emendamento che dovrebbe andare al voto in commissione non c’è traccia di questo dietrofront anche se non è escluso che su questo tema le richieste dei sindaci possano essere accolte. L’emendamento detta anche le istruzioni su come contabilizzare il rimborso annuale delle anticipazioni di liquidità a decorrere dall’esercizio 2021. Gli enti, spiega la norma, iscriveranno nel bilancio di previsione il rimborso annuale delle anticipazioni di liquidità «nel titolo 4 della missione 20 – programma 03 della spesa, riguardante il rimborso dei prestiti». A decorrere dal medesimo anno 2021, in sede di rendiconto, gli Enti locali ridurranno, «per un importo pari alla quota annuale rimborsata con risorse di parte corrente, il fondo anticipazione di liquidità accantonato». La quota del risultato di amministrazione liberata seguito della riduzione del fondo anticipazione di liquidità sarà iscritta in entrata del bilancio dell’esercizio successivo come «Utilizzo del fondo anticipazione di liquidità», in deroga ai limiti previsti dall’articolo 1, commi 897 e 898, dell’articolo 1 della legge 30 dicembre 2018 n. 145. Nella nota integrativa allegata al bilancio di previsione nella relazione sulla gestione allegata al rendiconto dovrà essere data evidenza della copertura delle spese riguardanti le rate di ammortamento delle anticipazioni di liquidità, che, precisa la disposizione, «non possono essere finanziate dall’utilizzo del fondo anticipazioni di liquidità». «In accordo con tutti i capigruppo della commissione bilancio, siamo al lavoro per inserire nel decreto Sostegni bis una norma in grado di valutare con maggior ponderazione gli effetti della sentenza della Corte Costituzionale che interviene su un’area di comuni e, più marginalmente, di province e Città metropolitane, caratterizzati da maggior fragilità e rigidità degli equilibri di bilancio, sui quali deve essere definita una nuova politica di sostegno al risanamento finanziario, attraverso una più ampia riforma della disciplina delle crisi finanziarie», ha spiegato Roberto Pella, capogruppo di Forza Italia in quinta commissione e primo firmatario dell’emendamento. «Con questa proposta, anche in considerazione degli effetti dell’emergenza epidemiologica tuttora in corso, si permette il recupero dei disavanzi di amministrazione degli enti locali mediante l’allungamento dei rispettivi periodi di ammortamento. Grazie a questa norma per la quale è doveroso ringraziare anche il viceministro all’economia Laura Castelli, i Comuni potranno scongiurare il default e continuare ad assicurare ai cittadini l’erogazione di servizi che non avrebbero più potuto garantire se non si fosse intervenuti concedendo loro più tempo per risanare i debiti pregressi». L’intesa è frutto della riformulazione da parte del governo degli emendamenti Anci al decreto legge Sostegni bis. Resta ancora aperto il nodo del tetto che circoscrive la possibilità di fruire delle risorse ai soli municipi con maggiori disavanzi superiori al 10% di incidenza sulle entrate correnti. Un tetto che l’ANCI aveva subito definito «del tutto arbitrario». Pella (FI): i comuni potranno continuare a garantire i servizi ai cittadini




Riflessioni sulla “nuova” mobilità

Fonte – Italia Oggi

La nuova mobilità senza nulla osta richiede 3 anni di permanenza presso l’ente dal quale il dipendente pubblico intende trasferirsi. L’articolo 3, comma 7, del d.l. 80/2021, nel sopprimere (con l’eccezione dei comparti sanità ed istruzione, pari a circa la metà del complesso dei dipendenti pubblici) il «previo assenso» alla mobilità (noto anche come nulla osta), prevede tre possibili (e non molto chiaramente definite) eccezioni. Tra esse, la circostanza che si tratti di «personale assunto da meno di tre anni». Detta previsione pone almeno due ordini di problemi: il coordinamento con le disposizioni circa l’obbligo di permanenza in servizio a seguito della prima assunzione e se per personale «assunto» possa intendersi quello che sia provenuto per mobilità. Obblighi di permanenza L’articolo 35, comma 5-bis, del d.lgs. 165/2001 dispone che «i vincitori dei concorsi devono permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni.  La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi».

Per gli Enti locali, la norma è replicata dall’articolo 3, comma 5-septies del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014: «i vincitori dei concorsi banditi dalle regioni e dagli enti locali, anche se sprovvisti di articolazione territoriale, sono tenuti a permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi». E’ evidente che la previsione del d.l. 80/2021, che ritiene da applicare il nulla osta al personale assunto da meno di tre anni non sia perfettamente coordinata con le norme viste prima, ai sensi delle quali vi è un obbligo di permanenza nella sede di cinque anni. Si potrebbe sostenere che le norme non siano in contrasto tra loro. Infatti quelle sull’obbligo di permanenza sono riferite espressamente ai «vincitori dei concorsi»; sicchè si potrebbe concludere che i vincitori dei concorsi proprio non possono chiedere la mobilità prima dei cinque anni. Tutti gli altri dipendenti, invece, dovrebbero dimostrare di aver lavorato per almeno tre anni presso l’ente dal quale intendono trasferirsi. Tuttavia, pare possibile leggere la previsione del d.l. 80/2021 in termini più ampi e, cioè, come norma oggettivamente incompatibile con quelle precedenti e, come tale, essendo intervenuta su una medesima materia, capace di abrogare implicitamente tali norme precedenti.

Esigenze di di sistematicità e coerenza interpretativa lasciano preferire la seconda tesi e propendere, quindi, per l’abrogazione tacita del vincolo di permanenza nella prima sede successiva ai concorsi per cinque anni e per l’introduzione di un termine minimo di tre anni generalizzato, ai fini della mobilità. Cosa si intende per personale assunto Come si è visto, la normativa precedente riferisce l’obbligo di permanenza per cinque anni ai «vincitori di concorsi». Si è, quindi, sempre inteso che laddove un dipendente fosse stato assunto da un ente a seguito di mobilità in entrata, non fosse tenuto al vincolo di permanenza quinquennale. Il d.l. 80/2021, tuttavia, rimette il triennio minimo di lavoro presso un ente come requisito soggettivo perché non sia richiesto il nulla osta alla pura e semplice «assunzione»: locuzione che sintetizza la sottoscrizione tra un datore ed un lavoratore di un contratto di lavoro subordinato. Da questo punto di vista ogni attivazione di un rapporto di lavoro, qualunque sia lo strumento di reclutamento, concorso, corso-concorso, stabilizzazione o la stessa mobilità in entrata, è un’assunzione. Né deve trarre in inganno la circostanza che la mobilità tra enti soggetti a limitazioni al turnover sia neutrale sul piano finanziario e quindi non sia considerata «assunzione» sul piano giuscontabile: si tratta di una finzione giuridica, che non cancella il fenomeno dell’assunzione. Dunque, i tre anni minimi necessari a scongiurare il nulla osta valgono per tutti i dipendenti «assunti», a prescindere dal modo col quale siano stati assunti. Il triennio di permanenza minima è coerente con la durata triennale della programmazione dei fabbisogni lavorativi e fornisce alle amministrazioni un orizzonte minimo di durata della prestazione lavorativa e della programmazione operativa dei propri dipendenti.




Decreto Reclutamenti: i caratteri del Piano integrato di attività e organizzazione

Ai sensi dell’articolo 6 del Decreto Reclutamenti (d.l. n. 80/2021), le PA con più di cinquanta dipendenti dovranno adottare il Piano integrato di attività e organizzazione entro il 31 dicembre. Tale documento individua gli obiettivi della performance da raggiungere nonché le modalità attuative del processo di potenziamento del personale.
Il piano dura tre anni e dev’essere aggiornato annualmente; al suo interno, oltre al lato gestionale e organizzativo dell’ufficio, dev’essere presente il percorso di digitalizzazione e semplificazione amministrativa nonché la prevenzione anticorruzione. Una volta entrato in vigore il provvedimento in discorso, gli altri adempimenti in precedenza vigenti saranno aboliti entro 60 giorni. Successivamente, entro il 31 luglio, le giunte di Comuni e Province dovranno presentare ai consigli il Dup per il triennio 2022/2024. Subentra in questa fase la divisione tra sezione strategica, che sviluppa le linee programmatiche di mandato, e la sezione operativa, recante i principali atti programmatori dell’ente. Scopo del Dup è integrare gli strumenti di programmazione dell’ente, tra i quali il programma triennale di fabbisogno di personale. Qualora l’ente non riesca a sostituire i vecchi strumenti di programmazione entro il 31 luglio sarà costretto a ad adoperare la normativa precedente, dovendo comunque presentare il nuovo piano interato in consiglio entro il 15 novembre 2021. Ad ogni modo, dalla mancata adozione colpevole discende l’applicazione delle sanzioni ex articolo 10 del d.lgs 150/2009: nessuna retribuzione di risultati per i dirigenti che per inerzia o omissione non hanno adempiuto ai propri compiti, né tantomeno l’Amministrazione potrà assumere personale o conferire incarichi di consulenza o collaborazione.

Decreto Legge 9/6/2021 n. 80 (G.U. 9/6/2021 n. 136)

Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia

 

Articolo 6

Titolo I – RAFFORZAMENTO DELLA CAPACITÀ AMMINISTRATIVA DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Capo I- Modalità speciali per il reclutamento per l’attuazione del PNRR e per il rafforzamento della capacità funzionale della pubblica amministrazione

Piano integrato di attivita’ e organizzazione

1. Per assicurare la qualita’ e la trasparenza dell’attivita’ amministrativa e migliorare la qualita’ dei servizi ai cittadini e alle imprese e procedere alla costante e progressiva semplificazione e reingegnerizzazione dei processi anche in materia di diritto di accesso, le pubbliche amministrazioni, con esclusione delle scuole di ogni ordine e grado e delle istituzioni educative, di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, con piu’ di cinquanta dipendenti, entro il 31 dicembre 2021 adottano il Piano integrato di attivita’ e organizzazione, di seguito denominato Piano, nel rispetto delle vigenti discipline di settore e, in particolare, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 e della legge 6 novembre 2012, n. 190.

2. Il Piano ha durata triennale, viene aggiornato annualmente e definisce: a) gli obiettivi programmatici e strategici della performance secondo i principi e criteri direttivi di cui all’articolo 10, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150; b) la strategia di gestione del capitale umano e di sviluppo organizzativo, anche mediante il ricorso al lavoro agile, e gli obiettivi formativi annuali e pluriennali, finalizzati al raggiungimento della completa alfabetizzazione digitale, allo sviluppo delle conoscenze tecniche e delle competenze trasversali e manageriali e all’accrescimento culturale e dei titoli di studio del personale correlati all’ambito d’impiego e alla progressione di carriera del personale; c) compatibilmente con le risorse finanziarie riconducibili al Piano di cui all’articolo 6 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, gli strumenti e gli obiettivi del reclutamento di nuove risorse e della valorizzazione delle risorse interne, prevedendo, oltre alle forme di reclutamento ordinario, la percentuale di posizioni disponibili nei limiti stabiliti dalla legge destinata alle progressioni di carriera del personale, anche tra aree diverse, e le modalita’ di valorizzazione a tal fine dell’esperienza professionale maturata e dell’accrescimento culturale conseguito anche attraverso le attivita’ poste in essere ai sensi della lettera b); d) gli strumenti e le fasi per giungere alla piena trasparenza dell’attivita’ e dell’organizzazione amministrativa nonche’ per raggiungere gli obiettivi in materia di anticorruzione; e) l’elenco delle procedure da semplificare e reingegnerizzare ogni anno, anche mediante il ricorso alla tecnologia e sulla base della consultazione degli utenti, nonche’ la pianificazione delle attivita’ inclusa la graduale misurazione dei tempi effettivi di completamento delle procedure effettuata attraverso strumenti automatizzati; f) le modalita’ e le azioni finalizzate a realizzare la piena accessibilita’ alle amministrazioni, fisica e digitale, da parte dei cittadini ultrasessantacinquenni e dei cittadini con disabilita’; g) le modalita’ e le azioni finalizzate al pieno rispetto della parita’ di genere, anche con riguardo alla composizione delle commissioni esaminatrici dei concorsi.

3. Il Piano definisce le modalita’ di monitoraggio degli esiti, con cadenza periodica, inclusi gli impatti sugli utenti, anche attraverso rilevazioni della soddisfazione dell’utenza mediante gli strumenti di cui al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, nonche’ del monitoraggio dei procedimenti attivati ai sensi del decreto legislativo 20 dicembre 2009, n. 198.

4. Le pubbliche amministrazioni di cui al comma 1 del presente articolo pubblicano il Piano e i relativi aggiornamenti entro il 31 dicembre di ogni anno sul proprio sito istituzionale e lo inviano al Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri per la pubblicazione sul relativo portale. 5. Entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto, con uno o piu’ decreti del Presidente della Repubblica, adottati ai sensi dell’articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono individuati e abrogati gli adempimenti relativi ai piani assorbiti da quello di cui al presente articolo.

6. Entro il medesimo termine di cui al comma 4, il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, previa intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, adotta un Piano tipo, quale strumento di supporto alle amministrazioni di cui al comma 1. Nel Piano tipo sono definite modalita’ semplificate per l’adozione del Piano di cui al comma 1 da parte delle amministrazioni con meno di cinquanta dipendenti.

7. In caso di mancata adozione del Piano trovano applicazione le sanzioni di cui all’articolo 10, comma 5, del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, ferme restando quelle previste dall’articolo 19, comma 5, lettera b), del decreto-legge 25 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 114. 8. All’attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo le amministrazioni interessate provvedono con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.




ForumPA 2021, presentata la ricerca sul lavoro pubblico

Personale in calo nella Pubblica amministrazione ad eccezione del comparto sanitario. Meno lavoratori pubblici rispetto agli altri Paesi europei e una Pa “anziana”, con un’età media di 50 anni. Sono alcuni dati emersi dalla ricerca sul lavoro pubblico presentata a FORUM PA 2021, la manifestazione che fino al 25 giugno ospiterà oltre 200 eventi in streaming sul tema guida “Connettere le energie vitali del Paese”, attorno alle missioni, agli obiettivi e agli interventi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

Il rapporto rileva, inoltre, che si investe poco in formazione e competenza, con un impiego complessivo, nel 2019, di 110 milioni in meno rispetto a 10 anni fa.

Il ricorso allo smart working, prima della pandemia, era quasi inesistente: circa l’1% nel 2019. Con i provvedimenti del Governo il lavoro agile ha riguardato, nel secondo trimestre del 2020, un dipendente su tre (il 33%). Ad eccezione del 58% del personale impiegato nell’istruzione e della sanità che non ha potuto far ricorso allo smart working.

Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, si legge ancora nel rapporto, saranno previsti investimenti in Capacità Amministrativa della Pa per 1,3 miliardi, e ulteriori 0,4 miliardi di fondi strutturali UE e cofinanziamento nazionale.

 

Nel 2020 il blocco dei concorsi non ha permesso al turnover di ritrovare un equilibrio

La Pubblica Amministrazione italiana al 1° gennaio 2021 conta 3,2 milioni di dipendenti, 31 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,97%), il minimo storico degli ultimi 20 anni. Dopo il timido segnale di crescita del personale del 2019, nel 2020 il blocco dei concorsi per l’emergenza sanitaria e l’accelerazione dei pensionamenti non ha permesso al turnover di ritrovare un equilibrio. La PA italiana si conferma vecchia (in media 50 anni di età), scarsamente aggiornata (mediamente 1,2 giorni di formazione per dipendente l’anno), in difficoltà ad offrire servizi adeguati a imprese e cittadini (il 76% degli italiani li considera inadeguati, mentre gli europei insoddisfatti sono il 51%), eppure chiamata ad essere il motore della ripresa.

Nel prossimo triennio almeno 300 mila persone usciranno dal pubblico impiego

Intanto sono arrivati a 3,03 milioni i pensionati da lavoro pubblico, in un rapporto di 94 pensioni erogate ogni 100 contribuenti attivi. E l’esodo è destinato ad aumentare: come descritto nello stesso PNRR, nel prossimo triennio almeno 300 mila persone usciranno dal pubblico impiego (ma probabilmente saranno molte di più, se si considera che oltre 500 mila dipendenti hanno già oltre 62 anni e 183 mila hanno raggiunto oltre 38 anni di anzianità di servizio). Si è aperta però una nuova stagione dei concorsi, con lo sblocco delle prove selettive e un’importante semplificazione delle procedure, destinati ad accelerare l’inserimento di personale necessario a garantire il funzionamento della macchina pubblica. Secondo la fotografia del Dipartimento Funzione Pubblica, nel 2021 sono previsti 119 mila nuovi ingressi a tempo indeterminato nella PA: 9.875 posizioni tra regioni, servizio sanitario, comuni, università, enti pubblici non economici, enti di ricerca e avvocatura dello stato, a cui si aggiungono circa 91 mila posti della scuola e 18.014 posti di concorsi banditi, conclusi o da concludere.

 

I DATI NEL DETTAGLIO

Il calo del personale

Dopo una discesa durata oltre 10 anni, il numero dei dipendenti pubblici era risalito dello 0,5% nel 2019. Ma il numero è tornato a scendere del -0,97% nel 2020, fissandosi a 3.212.450, circa 31 mila persone in meno rispetto all’anno precedente. Prefetti, Ministeri, Agenzie Fiscali, Enti Pubblici non economici e Città Metropolitane hanno perso tra il 5% e il 7% del personale, i Comuni più del 2%. L’unico comparto con una crescita significativa dell’occupazione a tempo indeterminato è la Sanità.

Il confronto europeo

Dal confronto europeo, i lavoratori pubblici italiani in rapporto al totale non sono numerosi. Oggi in Italia opera nel settore pubblico il 13,4% dei lavoratori, meno che in Francia (che ha 5,6 milioni di dipendenti pubblici, il 19,6% del totale dei lavoratori), nel Regno Unito (5,2 milioni, il 16%,) o in Spagna (3,2 milioni, il 15,9%) ma più della Germania (4,8 milioni, il 10,8% del totale). Nel confronto con questi paesi è più basso anche il rapporto tra numero dei dipendenti pubblici e residenti: in Italia sono il 5,6%, in Francia l’8,4%, in Inghilterra il 7,8% e nella Spagna il 6,8%.

L’invecchiamento

La PA italiana è anziana. L’età media (in leggero calo) è 50 anni, con ampie differenze tra i comparti: supera i 55 anni in enti come Cnel, Presidenza del Consiglio e Carriera Penitenziaria, è di 39 anni nelle Forze Armate. Gli over 60 rappresentano il 16,3%, gli under 30 appena il 4,2%. È “pensionabile”, perché ha già compiuto 62 anni, il 16,3% del totale, oltre 500 mila persone, ma ce ne sono anche 180 mila che hanno maturato 38 anni di anzianità. Guardando solo l’anzianità contributiva, da Regioni e autonomie locali potrebbe andare in pensione il 10,9% dei dipendenti, dalle amministrazioni ministeriali il 15,2%. Guardando il requisito anagrafico si stima un’uscita di circa 105 mila persone dal SSN nell’arco dei prossimi 3-4 anni, di 215 mila persone dalla scuola.

Competenze e formazione

Sulla formazione dei dipendenti pubblici l’Italia continua ad investire poco. Nel 2019, l’ultimo anno fotografato dalla Ragioneria dello Stato, l’investimento complessivo è stato di 163,7 milioni di euro, 110 milioni in meno rispetto a 10 anni fa, che corrispondono a una media di 1,2 giorni di formazione l’anno. I laureati nella PA sono il 41,5%, cresciuti del 21,5% negli ultimi 10 anni, ma con un predominio di giuristi: 3 su dieci sono laureati in giurisprudenza, il 17% in economia, il 16% in scienze politiche o sociologia. Secondo i dati Istat la formazione è soprattutto su competenze tecnico specialistiche (45,2% dei partecipanti) e giuridico-normativa (30,9%), mentre solo una minoranza ha svolto corsi per accrescere competenze digitali (5%) o di project management (2,3%).

Spesa e indebitamento

Nel 2020 l’Italia ha speso 173,4 miliardi di euro per i redditi da lavoro dipendente nel settore pubblico, +0,3% rispetto al 2019, un incremento ben inferiore al +2,4% inizialmente preventivato per la crescita di personale. Ma nei prossimi anni si prospetta una crescita a livelli mai raggiunti nell’ultimo decennio, tra rinnovi contrattuali e arretrati, perequazioni, aumenti Covid per il personale sanitario e assunzioni in deroga: la spesa per redditi aumenterà di circa 4 miliardi nel 2021, per raggiungere il picco di 187 miliardi nel 2022. Un calo delle entrate complessive di 54 miliardi e maggiori spese per 75 miliardi, invece, hanno portato l’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche nel 2020 a -156.860 milioni di euro, il 9,5% del Pil, in aumento di circa 129 miliardi rispetto al 2019 (quando era -27.901 milioni di euro, l’1,6% del Pil).

Smart Working

Prima della pandemia il ricorso a forme di lavoro agile era sostanzialmente irrilevante, circa l’1% nel 2019 secondo l’ISTAT. I provvedimenti del Governo hanno portato in smart working un dipendente della PA su tre (il 33%) nel secondo trimestre 2020. Un buon risultato, anche se avrebbero potuto essere oltre il doppio, considerando che il 64,9% delle professioni della PA si potrebbe svolgere anche a distanza. Lo smart working, oltre a far sperimentare alle organizzazioni pubbliche una modalità inedita di organizzazione del lavoro è stato determinante per preservare i posti di lavoro: nei primi tre trimestri del 2020, tra i diversi settori economici solo la Pa non ha subito contraccolpi occupazionali della crisi (con posizioni lavorative e monte ore lavorate pressoché invariate).

L’esposizione al virus

Non per tutti lo smart working è stato possibile. Una grande fetta della Pubblica amministrazione, il 58% del totale che lavora nell’istruzione e nella sanità, si è trovata a lavorare sulla linea di fuoco. Il settore della sanità e assistenza sociale registra il 66,5% di tutte le denunce di infortunio sul lavoro da Covid19 all’Inail nel comparto industria e servizi da inizio epidemia al 30 aprile 2021, seguito dall’amministrazione pubblica (tra cui Asl, regioni, province e comuni) con il 9,2%. E la sanità conta anche la maggioranza (26%) di denunce di infortunio con esito mortale da Covid19. La professione più coinvolta dai contagi durante l’emergenza è quella dei tecnici della salute (38% di denunce Inail, soprattutto infermieri), seguita dall’operatore socio-sanitario con il 18,7%, il medico con l’8,7%, l’operatore socio-assistenziale con il 7,1%.

Next Generation Pa

Nel PNRR saranno previsti investimenti in Capacità Amministrativa della Pa per 1,3 miliardi di euro, più ulteriori 0,4 miliardi di fondi strutturali UE e cofinanziamento nazionale. Nel dettaglio, investiremo l’1,6% del totale previsto, pari a 20,5 milioni di euro, in politiche e strumenti per l’accesso e il reclutamento, a cui sommare 4,5 milioni del POC – Pon Governance; il 57,9%, pari a 734,2 milioni di euro, nella Buona Amministrazione, più 4 milioni che stiamo già spendendo sul Pon Governance 21-23; il 40,5%, pari a 514,2 milioni di euro, in Competenze e Carriere delle persone, a cui vanno sommate risorse complementari per 392 milioni.




Recovery Plan, il malessere dei Comuni e dell’ANCI

“In materia di Recovery Plan abbiamo una governance molto politica che coinvolge Ministeri competenti a seconda dei temi da trattare e più tutta la struttura che verrà incardinata dentro al Mef dal punto di vista finanziario. In questa governance il ruolo dei Comuni non c’è, non ci siamo nella cabina di regia”. Ad affermarlo è Veronica Nicotra, segretario generale ANCI, intervenendo al terzo Tavolo tecnico organizzato dal Centro studi Enti locali e dal dipartimento Economia e management dell’Università degli Studi di Pisa nell’ambito del progetto “Next Generation Eu-EuroPa Comune”.

“Ci sono stati – ha ricordato la rappresentante ANCI – i primi due decreti attuativi delle riforme prescritte dal Recovery (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), eppure siamo particolarmente preoccupati per l’assenza e mancanza di chiarezza rispetto alla finalizzazione delle misure. Abbiamo un totale di circa 87 mld che dovrebbero essere destinati a Regioni, Comuni, Province e Città metropolitane”.
“Il Paese – ha concluso Veronica Nicotra – deve spendere una mole di risorse enorme rispetto al tempo assegnato: parliamo di 200 mld da spendere in un quinquennio ed è un’illusione. Sicuramente i Comuni sono i maggiori investitori pubblici del nostro Paese, ma vogliono sapere cosa devono fare, con quante risorse e quali sono le regole amministrative”.

 

Recovery Plan: i sindaci chiedono l’assegnazione diretta delle risorse ai Comuni

“Noi sindaci delle grandi Città, a nome dei sindaci di tutti i Comuni italiani riuniti oggi nel Coordinamento ANCI dei Sindaci metropolitani, ribadiamo la necessità di veder riconosciute direttamente ai Comuni e alle Città le risorse del PNRR“. Esordisce così l’appello rivolto dai sindaci delle Città metropolitane al premier Mario Draghi: è necessario, sostengono i firmatari, instaurare un canale politico diretto con la Presidenza del consiglio e un tavolo permanente politico per concretizzare il coinvolgimento dei sindaci, superando la cabina di regia prevista dal Decreto Semplificazioni, vero artefice dell’esclusione degli Enti locali.

La partecipazione diretta dei Comuni – L’insoddisfazione degli amministratori è dovuta all’insufficienza del “ruolo riservato dal Dl Governance e Semplificazioni a Comuni e Città metropolitane. Chiediamo di partecipare direttamente e senza intermediazione alla gestione di alcune missioni di progetti, perché in questi anni abbiamo dato ampia dimostrazione di saper gestire gli investimenti con efficacia ed efficienza. Chiediamo che i finanziamenti siano diretti e non necessariamente intermediati dalle Regioni, applicando modelli di gestione già sperimentati dal Governo in occasione del Patto delle Città Metropolitane e del Pon Metro.” I sindaci domandano inoltre che i riparti siano condotti mediante “assegnazione automatica per classe demografica, stanziamenti a sportello su programmi nazionali e il finanziamento di progetti cosiddetti bandiera.”

I pericoli della sovrapposizione istituzionale – L’appello prosegue sottolineando la necessità che ogni livello di governo si assuma la responsabilità delle misure e delle risorse assegnate, garantendo tempi ed efficienza per gli interventi; sarà altrimenti impossibile investire le risorse assegnate alle condizioni che pone la Commissione UE: “Vogliamo fare il nostro lavoro e il nostro dovere per spendere bene e rapidamente le risorse; non accettiamo di aspettare anni di burocrazia e procedure per sapere chi fa che cosa. I cittadini hanno l’esigenza di vedere cantierizzati al più presto i progetti, quale risposta concreta generata sui territori dalle risorse assegnate dal PNRR. L’Europa ci chiede di realizzare e rendicontare i progetti entro il 2026: senza reali semplificazioni e risorse dirette sarà molto complicato rispondere ad una sfida epocale come quella del PNRR. La sovrapposizione tra diversi livelli istituzionali rischia di allungare i tempi e confondere le responsabilità.”




Quote rosa: il problema del rispetto della parità di genere nei piccoli Comuni

Fonte: Gazzetta degli Enti Locali

Le “quote rosa” non hanno vita facile nel sistema degli Enti locali, soprattutto nei piccoli Comuni. Tra i Comuni al di sotto dei 5mila abitanti delle Regioni a statuto ordinario che sono stati chiamati alle urne nell’ultima tornata elettorale, infatti, solo uno su due ha raggiunto l’obiettivo “quote rosa”. In ben 176 casi su 351 i candidati uomini hanno sforato il tetto dei 2/3 e in 63 Comuni hanno rappresentato percentuali superiori all’80% del totale. Caso limite Samo, in Calabria, dove si è raggiunta quota 100%. Tutto ciò affiora emerge da una elaborazione effettuata dal Centro Studi Enti Locali per l’Adnkronos, basata su dati del Ministero dell’Interno.

Il tema della parità di genere nei Piccoli Comuni
Il tema della rappresentazione femminile nelle liste elettorali dei Piccoli Comuni è stato recentemente portato all’attenzione del Consiglio di Stato che si è pronunciato, mediante l’ordinanza n.  4294/2021, sollevando la questione di costituzionalità per la legge che regola le elezioni nei Comuni fino a 5mila abitanti per mancato rispetto del principio della parità di genere. I candidati di sesso femminile hanno superato quelli appartenenti al genere maschile soltanto in 14 Comuni.
I due generi sono stati equamente rappresentati in 12 Comuni (2 Piemonte, 2 Basilicata, 2 Lombardia, 1 Marche, 1 Molise e 4 Piemonte), ma le buone notizie si fermano qui.
In tutti gli altri casi, ovvero nel 93% del totale degli enti al di sotto dei 5mila abitanti coinvolti nelle amministrative del settembre 2020 (solo Regioni a statuto ordinario), i candidati di sesso maschile hanno ampiamente superato quelli di sesso femminile. Globalmente le donne (2.602 su 8.162) hanno rappresentato il 31,8% del totale, leggermente al di sotto quindi del terzo dei candidati complessivi.

La normativa vigente in tema di parità di genere
Ma cosa prevedono le norme vigenti? Esistono 3 discipline differenti da applicare ad altrettanti scaglioni demografici, con regole sempre meno stringenti man mano che decresce la popolazione. Nel caso dei Comuni con più di 15mila abitanti, nessuno dei due sessi può essere rappresentato in ciascuna lista in misura superiore a due terzi dei candidati ammessi. Ove questo non accada, la Commissione elettorale circondariale può ridurre le liste cancellando, partendo dall’ultimo, i nomi dei candidati appartenenti al genere sovra rappresentato. Nel caso in cui, dopo questa riduzione, il numero di candidati ammessi sia inferiore a quello minimo previsto, scatta la ricusazione della lista. Per gli Enti con popolazione compresa tra 5mila e 15mila abitanti, in caso di violazione delle disposizioni a tutela della parità tra sessi, la lista viene ridotta cancellando i nomi dei candidati appartenenti al genere rappresentato in misura eccedente i due terzi dei candidati. Per i Comuni con popolazione inferiore ai 5mila abitanti – che in Italia rappresentano circa il 70% del totale – la spinta verso la parità di genere è decisamente più leggera. Come evidenziato dai giudici di Palazzo Spada, l’unica previsione di riequilibrio di genere è contenuta nell’art. 2 della legge 215/2012 che dispone che “nelle liste dei candidati è assicurata la rappresentanza di entrambi i sessi”.
Non è quindi prevista, a oggi, come si può leggere sul Giornale dell’ANCITEL, alcuna misura sanzionatoria a carico delle liste che non assicurino almeno un terzo di donne tra candidati. Se la Consulta dovesse avallare la posizione del Consiglio di Stato, promuovendo l’estensione ai Comuni più piccoli delle previsioni valide per gli enti dai 5mila abitanti in su, i consigli comunali italiani potrebbero cambiare volto in misura significativa.




Corte dei conti: Rapporto 2021 sulla finanza pubblica

Il documento approfondisce l’andamento complessivo dell’economia, la politica fiscale con il dibattito sulla riforma dell’IRPEF, la spesa e le iniziative sociali nonché la situazione di tutti i settori coinvolti dalla crisi emergenziale.

Il crollo del 2020

La previsione della magistratura contabile, dopo le pesanti perdite registrate nel 2020, parla addirittura di un aumento del 4,5% del PIL: la crescita potenziale, infatti potrà essere potenziata sfruttando al meglio gli investimenti pubblici e favorendo le iniziative imprenditoriali, assicurando a tal fine riforme strutturali e sostenibilità infrastrutturale e ambientale. L’annualità passata, infatti, ha subito il crollo del saldo primario che ha comportato l’aumento di quasi 8 punti dell’indebitamento netto: il rapporto fra debito e prodotto ha dunque toccato quota 155,8%. Una situazione non rosea, commenta la Corte, risolvibile mediante la creazione di un contesto più trasparente ed efficiente con le riforme su giustizia, PA, ammortizzatori sociali e fisco. Nello specifico, la riduzione del debito sarà possibile solo preservando tassi di interessi contenuti e favorendo la crescita dello stock complessivo di capitale nell’economia: “ciò dipenderà – ammonisce la Corte – dalle caratteristiche qualitative degli investimenti programmati del PNRR”.

Sanità e Enti locali

Per quanto concerne invece l’IRPEF, si sostiene la convinzione che le ipotesi d’intervento sul tema dovranno guardare all’efficienza e all’equità del sistema tributario nel suo complesso. Difatti, non è possibile trascurare gli obiettivi strategici rappresentati dal contrasto all’evasione e dal processo di semplificazione. Il rapporto si conclude facendo riferimento all’ammontare delle prestazioni sociali in denaro, prova concreta dello sforzo profuso dalle istituzioni per mitigare gli effetti della pandemia. Nello specifico, la spesa sanitaria ha raggiunto i 125 miliardi (+6,7% rispetto al 2019) compensando, in parte, le mancate prestazioni e gli interventi finanziari minimi nel settore degli ultimi anni. Impossibile non menzionare, infine, l’intensa attività degli Enti locali, che fanno registrare oltre 69 miliardi di investimenti a fronte di un valore di progetti pari a 145 miliardi: allo stato attuale, l’importante quota di risorse del Pnrr affidata alle Amministrazioni territoriali sembra essere in buone mani.




Decreto Sostegni bis: le norme di interesse per i Comuni

La nota esplicativa dell’ANCI relativa alle norme d’interesse dei Comuni contenute nel Decreto Sostegni bis, (decreto legge 25 maggio 2021, n. 73, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 123 del 25 maggio),  recante “Misure urgenti connesse all’emergenza da COVID-19, per le imprese, il lavoro, i giovani, la salute e i servizi territoriali”. Il provvedimento verrà trasmesso alla Camera dei deputati in prima lettura per la conversione in legge.

 

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ISTAT: la digitalizzazione della PA procede, ma i Comuni sono in forte ritardo (e più sono piccoli, peggio è)

L’ISTAT conferma quanto ormai sappiamo da tempo. Dalla sua periodica rilevazione sull’utilizzo dell’ICT nelle PA locali è emersa un’alta percentuale di personale in servizio con accesso a internet e una ampia presenza di strumenti tecnologici. Tra i Comuni, tuttavia, non c’è grande disponibilità di strumenti tecnologici moderni. Solo il 60% infatti possiede una rete Intranet per il coordinamento comunicativo e informativo.

La diffusione delle competenze nelle PA
Nell’area organizzativa e strategica, sono davvero pochi i Comuni che investono nello sviluppo di competenze interne e nella formazione del personale in materia di tecnologie ICT: nel 2018 solo il 7,3% del personale ha partecipato ad attività formative in materia. Molto più diffuso il ricorso a società esterne. Sussiste però un buon livello nella gestione delle principali funzioni amministrative, nonostante ancora il 40% dei Comuni utilizzi ancora procedure analogiche. Si registra un generale miglioramento della disponibilità di strumenti online: oltre nove Comuni su dieci permettono di acquisire on line modulistica e quasi tutti (98,3%) forniscono online informazioni. Purtroppo, specie nei Comuni più piccoli, la diffusione dei servizi interamente online è ancora limitata. Le regioni nelle quali è più diffusa l’offerta dei servizi online sono Umbria, Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto; tra quelle meno performanti, figurano la Valle d’Aosta, il Molise, la Provincia Autonoma di Bolzano e la Calabria.

I servizi online offerti
La maggior parte dei servizi online adibiti dalle PA sono destinati alle imprese, sia tra i Comuni grandi che in quelli fino a 5mila abitanti. Ad ogni modo, l’offerta interattiva dei Comuni più piccoli si concentra su livelli di informatizzazione molto bassi. Nel 2018 è stato misurato per la prima volta un indicatore di risultato in termini di pratiche evase online sul totale: per i quattro servizi alle imprese analizzati, la gran parte dei Comuni che hanno dichiarato un’offerta online più matura e hanno indicato anche quote elevate di moduli ricevuti o di pratiche evase interamente online, con un’incidenza compresa tra il 71% e il 100% del totale dei moduli ricevuti e delle pratiche evase. Per quanto riguarda le modalità di accesso ai servizi, il 20,5% dei Comuni dichiara che, nel 2018, l’utenza può accedere ai servizi online attraverso l’identità digitale (Spid); per i Comuni più grandi (oltre i 60mila abitanti), tale quota sale al 58,2%, mentre è pari ad appena il 15,8% per quelli fino a 5mila abitanti. Il Censimento permanente delle istituzioni pubbliche è una rilevazione diretta, rivolta a tutte le istituzioni pubbliche e alle unità locali ad esse afferenti. Nella seconda edizione del Censimento, svolta nel 2018 sono state rilevate 12.848 istituzioni pubbliche, articolate sul territorio in 63.414 unità locali. Le informazioni raccolte permettono di cogliere il livello di digitalizzazione sotto questi profili, allargando il quadro all’insieme delle amministrazioni e delle istituzioni della PA. Tra i canali disponibili per acquisire informazioni, lo sportello fisico resta quello più utilizzato dalle unità locali di tutte le tipologie istituzionali. Fanno eccezione le Città metropolitane e l’Università pubblica, per le quali il canale più utilizzato è il sito istituzionale. Le unità locali delle Università pubbliche si confermano più digitalizzate delle altre tipologie istituzionali, consentendo di svolgere tutte le operazioni previste attraverso canali online.




La Cassazione conferma il licenziamento del lavoratore lavativo

La sentenza 11635/21, pubblicata il 4 maggio dalla sezione lavoro della Cassazione, ha reso definitivo il benservito dato al dipendente Asl di Foggia, assunto come operatore tecnico Ced in una procedura per stabilizzare i precari. I Supremi Giudici hanno stabilito infatti che, laddove venga violato il regolamento disciplinare e il lavoratore presenti scarso rendimento e assenteismo è giustificata la massima sanzione espulsiva. Infatti nel caso di specie l’informatico, proprio perché spesso non presente in ufficio o assente negli orari di lavoro è stato ritenuto poco affidabile ed incapace di adempiere in modo adeguato gli obblighi di servizio.

Perciò, se i singoli episodi in precedenza non sono stati ritenuti importanti tanto da ledere in modo irreparabile il rapporto di fiducia con il datore, il “protrarsi della prestazione insufficientemente produttiva” risulta essere fondamentale per minare quel rapporto. Quindi, non giova eccepire l’illegittimità del licenziamento per rappresaglia, dal momento che risultano chiari e dimostrati i gravi e numerosi inadempimenti contestati al lavoratore, inadempimenti che legittimano il recesso del datore per violazione del regolamento disciplinare, dal momento che lo stesso, data la gravità degli inadempimenti, non ha potuto più confidare nella correttezza della prestazione lavorativa.

 

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Chiarimenti sull’aspettativa per il dipendente che svolge attività professionali o imprenditoriali

Il dipendente pubblico che intenda avviare un’attività professionale e imprenditoriale può godere del collocamento in aspettativa, senza assegni né decorrenza dell’anzianità, per un periodo massimo di dodici mesi. È comunque esclusa da tale ipotesi la stipula di contratti di lavoro subordinato con datori di lavoro privati. Lo ha chiarito il Dipartimento della Funzione pubblica con il parere del 24 marzo 2021, n. 19365.

Il quesito rivolto al Dipartimento concerne la possibilità per il dipendente di una Provincia di svolgere contemporaneamente un’attività di lavoro subordinato presso un privato sfruttando l’aspettativa ex articolo 18 della legge n. 183/2010. Secondo il Dipartimento questa disposizione, come modificata dall’articolo 4, comma 2, della legge n. 56/2019, consente ai dipendenti pubblici di essere collocati in aspettativa, privi di assegni e senza decorrenza dell’anzianità, qualora gli stessi siano intenzionati ad avviare attività economiche o imprenditoriali.

Per tale periodo non si applicano le disposizioni in tema di incompatibilità dettate dall’articolo 53 del d.lgs n. 165/2001, norma che impedisce ai dipendenti pubblici l’esercizio del commercio, dell’industria, dell’attività professionale o l’assunzione di impieghi alle dipendenze di privati. Dunque, considerando che l’aspettativa di cui trattasi agisce in deroga alla disciplina generale sopraccitata, la stessa dev’essere concessa previo esame della documentazione presentata dall’interessato. Ad ogni modo, conclude il Dipartimento, poiché il legislatore del 2019 fa cenno alle sole attività professionali e imprenditoriali, si ritiene comunque preclusa ai dipendenti pubblici la stipula di contratti di lavoro subordinato con datori di lavoro privati, per quanto attiene al regime dell’aspettativa in esame.

 IL PARERE DEL DIPARTIMENTO DELLA FUNZIONE PUBBLICA DEL 24 MARZO 2021, N. 19365.




Dipendenti Pubblica Amministrazione: tasse più leggere sui premi nella busta paga

Fonte: Sole 24 Ore

Ancora caos sulla tassazione dei compensi derivanti dai contratti decentrati. Il balletto tra tassazione ordinaria e separata non trova una risposta definitiva. La questione è stata riaffrontata dall’agenzia delle Entrate con la risposta all’interpello 223/2021. Ma la posizione è dirompente se calata nella realtà della PA. Il problema nasce dalla consolidata interpretazione dell’Agenzia, secondo cui gli emolumenti erogati fisiologicamente nell’anno successivo, se riferiti a prestazioni effettuate nell’anno precedente, devono essere assoggettati a tassazione ordinaria. In passato, il caso tipico era rappresentato dal pagamento della premialità legata al raggiungimento di obiettivi, che possono essere valutati solo a posteriori.

Con l’interpello le Entrate sembrano aver cambiato rotta in presenza di contratto decentrato. Il Tuir prevede per l’applicazione della tassazione separata due fattispecie: le situazioni giuridiche e quelle di fatto. Tra le prime vanno annoverate le leggi, i contratti collettivi, le sentenze e gli atti amministrativi sopravvenuti, le seconde sono rappresentate da tutte le ipotesi in cui il ritardo non dipenda dalla volontà delle parti o non sia fisiologico. La novità consiste nel fatto che in presenza di cause giuridiche, tra le quali si annovera il contratto decentrato, i compensi relativi ad annualità precedenti vanno sempre assoggettati a tassazione separata, senza alcuna valutazione sul carattere fisiologico del ritardo. Partendo da questo presupposto, l’Agenzia, esplicitamente, conferma l’applicazione della tassazione separata «ai compensi incentivanti la produttività» che derivino «da contrattazione articolata di ente». Nella PA i compensi per la performance sono subordinati alla stipula di un contratto decentrato. Ne consegue che la tassazione agevolata sia la disciplina naturale.

Decisamente meno chiara la posizione dell’Agenzia sulle progressioni economiche orizzontali e i compensi per l’avvocatura, per i quali viene affermato che la tassazione separata si applica solo in presenza di «una delle cause di cui all’articolo 17, comma 1, lettera b), del Tuir», senza nulla evidenziare in ordine alla presenza o meno di un contratto decentrato. Ma se la regola della tassazione separata si applica alla produttività conseguente ad un contratto decentrato, per quale motivo ci si dovrebbe discostare da tale modalità di tassazione per gli arretrati da progressioni, i quali, a loro volta, trovano fondamento nello stesso contratto?
Decisamente più complessa la questione relativa ai compensi per l’avvocatura. E volendo allargare il discorso, richiamando l’articolo 40 del d.lgs. 165/2001, tutti i compensi spettanti al dipendente pubblico devono trovare il fondamento in una norma di legge o di contratto. Quindi, in presenza di arretrati, anche fisiologicamente corrisposti nell’anno successivo, come si può giustificare la tassazione ordinaria?




Illegittimo il ricorso alle ferie dell’anno corrente per fronteggiare la emergenza Covid

Pubblichiamo una importante sentenza del Tribunale di Milano – Sezione Lavoro che ha accolto il ricorso presentato da una lavoratrice del Comune di Pieve Emanuele contro la condotta mantenuta dal Comune stesso di collocarla in ferie, utilizzando n.6 giorni maturati nell’anno 2020, non potendo essa svolgere la propria prestazione in modalità agile durante il periodo emergenziale, invece di riconoscerle l’esenzione dal servizio con regolare retribuzione, come stabilito dall’art. 87, co. 3, d.l. n. 18/2020.

SENTENZA TRIBUNALE MILANO




Fondo per l’esercizio delle funzioni degli Enti locali: il riparto

Il report della Conferenza Stato-Città, della seduta straordinaria del 25 marzo 2021, con l’importante approvazione dello schema di decreto del Ministro dell’Interno, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, recante i criteri e le modalità di riparto dell’incremento di 220 milioni di euro del fondo per l’esercizio delle funzioni degli Enti locali, di cui all’art. 106, comma 1, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34.

Report_25-marzo-2021

Scheda allegati-1 




Rapporto ISTAT sul mercato del lavoro

Il Rapporto annuale sul mercato del lavoro è frutto della collaborazione tra Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Istat, Inps, Inail e Anpal, sviluppata nell’ambito dell’Accordo quadro che ha l’obiettivo di favorire la diffusione d’informazioni armonizzate, complementari e coerenti sulla struttura e sulla dinamica del mercato del lavoro in Italia, valorizzando la ricchezza delle diverse fonti d’informazione sull’occupazione – amministrative e statistiche – per rispondere all’esigenza di una lettura sempre più integrata dei dati sul fenomeno esaminato.

Nel 2020, la pandemia dovuta al Covid-19 ha condizionato in maniera cruciale gli sviluppi dell’economia e della società, in Italia come nel mondo intero. L’emergenza sanitaria e la conseguente sospensione delle attività di interi settori produttivi hanno rappresentato anche nel nostro Paese uno shock improvviso e senza precedenti sulla produzione di beni e servizi e, di conseguenza, sul mercato del lavoro. In particolare nel secondo trimestre 2020 si è assistito a un crollo dell’attività economica, seguito da un recupero, per certi aspetti superiore alle aspettative, nel terzo trimestre e una nuova riduzione nel quarto dovuta alla recrudescenza della diffusione dei contagi.

Gli approfondimenti contenuti nel Rapporto descrivono gli effetti del Covid-19 sulla domanda e sull’offerta di lavoro, il ruolo degli ammortizzatori sociali messi in campo, e le ricadute sulla qualità del lavoro. Data la natura dei provvedimenti di sostegno alle imprese e ai lavoratori, gli effetti della crisi si sono manifestati più sulle ore lavorate che sull’occupazione; ciononostante il numero di persone rimaste senza lavoro è considerevole, soprattutto a seguito delle cessazioni dei contratti a termine non rinnovati e del venir meno di nuove assunzioni in un generalizzato clima di “sospensione” delle attività, inclusa quella della ricerca di lavoro. Il calo dell’attività e dell’occupazione si è concentrato nei servizi e, complessivamente, ha avuto effetti ridotti nella manifattura.

In questo difficile contesto, il Rapporto fornisce elementi di riflessione, basati sull’evidenza empirica e sul rigore analitico, che sono utili a favorire lo sviluppo del dibattito pubblico sul tema del lavoro e che possono contribuire all’orientamento delle politiche.

IL RAPPORTO ISTAT

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