Riflessioni sulla “nuova” mobilità

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Fonte – Italia Oggi

La nuova mobilità senza nulla osta richiede 3 anni di permanenza presso l’ente dal quale il dipendente pubblico intende trasferirsi. L’articolo 3, comma 7, del d.l. 80/2021, nel sopprimere (con l’eccezione dei comparti sanità ed istruzione, pari a circa la metà del complesso dei dipendenti pubblici) il «previo assenso» alla mobilità (noto anche come nulla osta), prevede tre possibili (e non molto chiaramente definite) eccezioni. Tra esse, la circostanza che si tratti di «personale assunto da meno di tre anni». Detta previsione pone almeno due ordini di problemi: il coordinamento con le disposizioni circa l’obbligo di permanenza in servizio a seguito della prima assunzione e se per personale «assunto» possa intendersi quello che sia provenuto per mobilità. Obblighi di permanenza L’articolo 35, comma 5-bis, del d.lgs. 165/2001 dispone che «i vincitori dei concorsi devono permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni.  La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi».

Per gli Enti locali, la norma è replicata dall’articolo 3, comma 5-septies del d.l. 90/2014, convertito in legge 114/2014: «i vincitori dei concorsi banditi dalle regioni e dagli enti locali, anche se sprovvisti di articolazione territoriale, sono tenuti a permanere nella sede di prima destinazione per un periodo non inferiore a cinque anni. La presente disposizione costituisce norma non derogabile dai contratti collettivi». E’ evidente che la previsione del d.l. 80/2021, che ritiene da applicare il nulla osta al personale assunto da meno di tre anni non sia perfettamente coordinata con le norme viste prima, ai sensi delle quali vi è un obbligo di permanenza nella sede di cinque anni. Si potrebbe sostenere che le norme non siano in contrasto tra loro. Infatti quelle sull’obbligo di permanenza sono riferite espressamente ai «vincitori dei concorsi»; sicchè si potrebbe concludere che i vincitori dei concorsi proprio non possono chiedere la mobilità prima dei cinque anni. Tutti gli altri dipendenti, invece, dovrebbero dimostrare di aver lavorato per almeno tre anni presso l’ente dal quale intendono trasferirsi. Tuttavia, pare possibile leggere la previsione del d.l. 80/2021 in termini più ampi e, cioè, come norma oggettivamente incompatibile con quelle precedenti e, come tale, essendo intervenuta su una medesima materia, capace di abrogare implicitamente tali norme precedenti.

Esigenze di di sistematicità e coerenza interpretativa lasciano preferire la seconda tesi e propendere, quindi, per l’abrogazione tacita del vincolo di permanenza nella prima sede successiva ai concorsi per cinque anni e per l’introduzione di un termine minimo di tre anni generalizzato, ai fini della mobilità. Cosa si intende per personale assunto Come si è visto, la normativa precedente riferisce l’obbligo di permanenza per cinque anni ai «vincitori di concorsi». Si è, quindi, sempre inteso che laddove un dipendente fosse stato assunto da un ente a seguito di mobilità in entrata, non fosse tenuto al vincolo di permanenza quinquennale. Il d.l. 80/2021, tuttavia, rimette il triennio minimo di lavoro presso un ente come requisito soggettivo perché non sia richiesto il nulla osta alla pura e semplice «assunzione»: locuzione che sintetizza la sottoscrizione tra un datore ed un lavoratore di un contratto di lavoro subordinato. Da questo punto di vista ogni attivazione di un rapporto di lavoro, qualunque sia lo strumento di reclutamento, concorso, corso-concorso, stabilizzazione o la stessa mobilità in entrata, è un’assunzione. Né deve trarre in inganno la circostanza che la mobilità tra enti soggetti a limitazioni al turnover sia neutrale sul piano finanziario e quindi non sia considerata «assunzione» sul piano giuscontabile: si tratta di una finzione giuridica, che non cancella il fenomeno dell’assunzione. Dunque, i tre anni minimi necessari a scongiurare il nulla osta valgono per tutti i dipendenti «assunti», a prescindere dal modo col quale siano stati assunti. Il triennio di permanenza minima è coerente con la durata triennale della programmazione dei fabbisogni lavorativi e fornisce alle amministrazioni un orizzonte minimo di durata della prestazione lavorativa e della programmazione operativa dei propri dipendenti.

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