Dal 15 settembre smart working “condizionato”

Da Italia Oggi 

Smart working sì, ma solo «a condizione che l’erogazione dei servizi rivolti a cittadini e imprese avvenga con regolarità, continuità ed efficienza, nonché nel rigoroso rispetto dei tempi previsti dalla normativa vigente». Il maxiemendamento al disegno di legge di conversione del dl 76/2020, cosiddetto Decreto Semplificazioni (convertito ieri in legge dalla Camera dei deputati) ha aggiunto la precisazione vista sopra alle previsioni dell’articolo 263 del decreto Rilancio (dl n. 34/2020). Il risultato è evidentemente l’ulteriore riduzione del numero dei dipendenti pubblici che potranno essere disposti in lavoro agile. Andando con ordine, dal prossimo 15 settembre sarà disapplicata la previsione contenuta nell’articolo 87, comma 1, lettera a), del dl 18/2020, che indicava alle amministrazioni di limitare la presenza del personale nei luoghi di lavoro per assicurare esclusivamente le attività che ritengono indifferibili e che richiedono necessariamente tale presenza, anche in ragione della gestione dell’emergenza.

A ben vedere, già dall’entrata in vigore del citato articolo 263 del dl 34/2020 le amministrazioni sono in gran parte rientrate dalla situazione d’emergenza e lo smart working si è ampiamente ridotto. Il ripetuto articolo 263 prevede che fino al 31 dicembre 2020 il lavoro agile sarà previsto esclusivamente per il 50% del personale addetto a mansioni che siano compatibili con questa forma di lavoro. Erroneamente molti leggono questa previsione nel senso che il 50% dei dipendenti pubblici resterà in lavoro agile, per salire al 60% nel 2021. Ma, i dipendenti pubblici sono circa 3.200.000. Circa la metà lo smart working non può proprio farlo: si tratta di forze dell’ordine, agenti di polizia municipale, medici, infermieri e personale tecnico ospedaliero, vigili del fuoco, personale esecutivo di ministeri ed enti locali. Ne restano 1.600.000. Di questi 1.600.000, circa 900 mila sono docenti, che lo smart working non possono effettuarlo. Ne restano 700 mila. Al massimo, se le varie amministrazioni fossero in grado, tutte, di individuare mansioni compatibili col lavoro agile, lo smart working potrebbe essere disposto per 350 mila dipendenti. In ogni caso, evidentemente il legislatore è consapevole che ritardi organizzativi e gravissime carenze nei collegamenti telematici e nella creazione di applicativi gestibili da remoto in sicurezza, in tantissimi casi hanno abbinato allo smart working rallentamenti operativi ed inefficienze: l’esatto opposto dei benefici che consente uno smart working ben organizzato e caratterizzato da dotazioni strumentali e in rete sufficienti.

Da qui, la previsione del maxiemendamento, che nell’enunciare la necessità di garantire lo smart working solo al 50% del personale adibito a mansioni con esso compatibili e di precisare che ciò non comprometta la regolarità, continuità ed efficienza, nonché il rigoroso rispetto dei tempi previsti dalla normativa vigente, in qualche misura «confessa» che l’esperienza dello smart working d’emergenza non ha brillato sempre per efficienza. La disposizione del maxiemendamento, inoltre, conferma che il numero dei dipendenti in lavoro agile sarà ben inferiore all’auspicato 50% di coloro che espletano mansioni astrattamente compatibili: infatti, se, a causa delle strutture e delle reti, il lavoro agile non garantisse efficienza e rispetto delle tempistiche, i dipendenti non potranno essere disposti in lavoro agile, nonostante le mansioni in teoria lo consentano.