Licenziamento illegittimo: ammessa solo la reintegrazione

Il “decreto Madia” (d.lgs. n. 75/2017) ha modificato il T.U. del lavoro nelle pubbliche amministrazioni, portando chiarezza e certezza sul regime del licenziamento disciplinare, a soluzione delle perplessità sorte dopo la “legge Fornero” (legge n. 92/2012).
Nelle pubbliche amministrazioni c’è, in qualunque caso di illegittimità del licenziamento, la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, senza possibilità di scelte diverse per entrambe le parti.

Inoltre, eliminando qualunque riferimento all’art. 18 Stat. lav., è stato escluso il “rito Fornero”. Resta, come disposto già con la prima privatizzazione del 1993, un regime totalmente diverso per le cessazioni dovute a motivi oggettivi, che la legge chiama «risoluzioni» senza usare la parola «licenziamento».

Il “decreto Madia” attribuisce anche un potere officioso del giudice, senza domanda, di rideterminare la sanzioni in caso d’illegittimità del licenziamento per sproporzione: oltre qualche incertezza facilmente superabile, sorgono dubbi su questo potere d’ufficio d’andare oltre le domande delle parti. Alla fine bisogna dar atto, ancor di più per i regimi di licenziamenti e «risoluzioni», che il lavoro pubblico ha una disciplina completamente distinta e separata rispetto a quella privata, con impossibilità di confronti.

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Ad ulteriore specifica, è bene ricordare che all’indomani dell’entrata in vigore della Legge Fornero (92/12) si è discusso se l’art. 18 riformato trovasse applicazione nell’ambito del pubblico impiego privatizzato oppure se dovesse continuare ad applicarsi l’art. 18 pre–riforma dello Statuto dei Lavoratori.
La tesi favorevole all’applicazione della norma, come riformata, argomentava perlopiù sul fatto che il rinvio di cui all’art. 51, comma 2, D.lgs 165/01 dovesse essere considerato come rinvio mobile.

Tuttavia vi era anche chi aveva osservato che, comunque, il licenziamento nel pubblico impiego avrebbe dovuto considerarsi nullo per contrarietà a norme imperative, applicandosi pertanto il primo comma dell’art. 18 “post–Fornero” e quindi, di fatto, le stesse conseguenze (reintegra) previste in base alla disciplina previgente.
La tesi contraria faceva leva, prevalentemente, su argomenti sistematici che avrebbero dovuto condurre a ritenere incompatibile l’opzione per una tutela meramente indennitaria con la disciplina del pubblico impiego seppur privatizzato.
Inoltre si faceva riferimento ai commi 7 e 8 dell’art. 1 L. 92/12, evocanti un futuro intervento normativo funzionale all’”armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.

Ulteriori problemi ha posto la legge c.d. sulle tutele crescenti. La questione, ormai non più attuale, era sorta per la mancanza di una espressa previsione tanto di inclusione quanto di esclusione del pubblico impiego dall’ambito di applicazione del D.lgs. n. 23/2015, silenzio suscettibile di opposte interpretazioni.

Dal punto di vista processuale, prima della riforma del 2017 (di cui al D.lgs n. 75/17), non vi erano dubbi, salvo ritenere ratione temporis (cioè per i lavoratori assunti dopo il 6 marzo 2015) applicabile la legge c.d. sulle tutele crescenti, sull’applicazione del rito di cui all’art. 1, commi 47 ss. L. 92/12.

Come confermato dalla Suprema Corte (cfr. Cass. 9 giugno 2016, n. 11868 – vedi oltre), infatti, restava “fuori dal tema dibattuto […] l’indiscutibile immediata applicazione alle impugnative dei licenziamenti adottati dalle pubbliche amministrazioni del nuovo rito, in primo grado ed in sede di impugnazione, quale disciplinato dalle norme in disamina, nulla ostando nè nelle previsioni della L. n. 92 del 2012 (art. 1, commi 48 e seguenti) nè nel corpo normativo di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001 ed anzi militando, per la generale applicazione ad ogni impugnativa di licenziamento ai sensi dell’art. 18 S.L., la espressa previsione dell’art. 1, comma 47 della legge del 2012”.

Tutto ciò fino a quando il legislatore del 2017, con il D.lgs n. 75/17, intervenendo sull’art. 63 T.U. del pubblico impiego, non ha previsto un nuovo regime speciale di tutela contro i licenziamenti, disponendo che “il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro. Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative. Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.”

Il nuovo regime garantisce indubbi vantaggi al dipendente pubblico rispetto ai dipendenti del settore privato. Tuttavia, come è stato giustamente osservato, ciò non è vero in assoluto, poiché, se è vero che iI dipendente pubblico ha sempre diritto alla reintegra in caso di licenziamento invalido:
– è però svantaggiato in caso di licenziamento nullo o discriminatorio, per il quale, applicando l’art. 18 post – Fornero, avrebbe avuto il diritto alla reintegra piena senza il limite delle 24 mensilità.
– è inoltre svantaggiato in caso di vizi formali (salvo che non ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa), alla luce del dettato dell’art. 55 bis comma 9 tre T.U. P.I., secondo cui “la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività. Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 55-quater, commi 3-bis e 3-ter, sono da considerarsi perentori il termine per la contestazione dell’addebito e il termine per la conclusione del procedimento”.

Con riferimento al rito applicabile, la novella del 2017 ha individuato, in materia di licenziamenti nel pubblico impiego, una tutela speciale e derogatoria delle norme comuni, che, anche se corrisponde (pur con alcune differenze), nella sostanza, alla disciplina di cui all’art. 18 pre–Fornero, non trova con l’art. 18 L. 300/70 alcun corrispondenza dal punto di vista formale.
In altre parole, poiché il rito Fornero si applica solo alle controversie in cui si invoca non una tutela reintegratoria ma, specificamente, l’art. 18 della L. 300/1970, nel pubblico impiego, dove quella disposizione non trova più applicazione, non troverà più asilo neanche il rito di cui all’art. 1 commi 47 ss. L. 92/12; viceversa il rito applicabile sarà quello “ordinario” del lavoro di cui agli artt. 409 ss. c.p.c.

Ma se, nonostante quanto evidenziato, l’impiegato pubblico licenziato impugna il recesso chiedendo tutela ai sensi dell’art. 18 St. Lav.? Valorizzando il principio dell’unicità dell’impugnazione del licenziamento, si ritiene che non si debba concludere per il rigetto della domanda, ma che il giudice, laddove ne ricorrano i presupposti, debba accordare la tutela prevista dalla legge applicabile (art. 63 T.U. pubblico impiego).

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Cassazione civile sez. lav., 09/06/2016, n.11868

Ad avviso della Corte di cassazione ai licenziamenti di cui sia stata dichiarata l’illegittimità nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico si applica il regime di tutela reale previsto dall’articolo 18 della legge 300/1970 nella sua formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla legge 92/2012.

Il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Giovanni Canzio, nel commentare tale sentenza, ha affermato che si è di fronte ad una pronuncia equiparabile a quelle emesse dalla Sezioni Unite: infatti, la Sezione specializzata, precisa lo stesso Primo Presidente, dopo ampio e approfondito dibattito, ha assunto una decisione unanime, così superando la posizione contraria assunta dalla stessa Corte di Cassazione con sentenza n.24157/2015 e con esclusione, in definitiva, dei necessari presupposti per un’eventuale rimessione alle medesime Sezioni Unite.

Con tale sentenza, dunque, la Cassazione ritorna sulle argomentazioni sviluppate in un proprio recente indirizzo, secondo il quale le modifiche apportate dalla legge 92/2012 non potranno automaticamente essere estese ai dipendenti della pubblica amministrazione sino a un intervento di armonizzazione del ministero per le Semplificazione e la Pubblica amministrazione, così come previsto dall’articolo 1, commi 7 e 8, della medesima legge Fornero.

I fautori dell’indirizzo contrario hanno fondato l’estensione dell’articolo 18 post Fornero, tra gli altri rilievi, sul presupposto che l’articolo 51, comma 2, del Dlgs 165/2001 (testo unico sul pubblico impiego) prevede espressamente l’applicazione della legge 300/1970, e successive modificazioni e integrazioni, ragion per cui esisterebbe un preciso riferimento nella legislazione primaria circa l’immediata precettività dell’articolo 18 nella versione dopo le modifiche della legge 92/2012.

Con la sentenza in oggetto la Cassazione dichiara di non condividere questa lettura, ritenendo che il riferimento dell’articolo 51, comma 2, del testo unico alla legge 300/1970 sia da interpretare non come rinvio mobile, ovvero alla disciplina statutaria tempo per tempo vigente, bensì come rinvio fisso a una fonte di legge cristallizzata alla data in cui è stata introdotta.

La Corte riconosce che tale interpretazione comporta il permanere di una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura, privata o pubblica, dei rapporti di lavoro coinvolti, ma respinge con nettezza ogni sospetto di incostituzionalità. Rileva la Corte, a questo proposito, che il lavoro privato e il lavoro pubblico, sebbene contrattualizzato, sono caratterizzati da una obiettiva diversità, in quanto nel comparto pubblico è presente, diversamente dal privato, la necessità di far prevalere la tutela dell’interesse collettivo al buon funzionamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione.

Rispetto a questa esigenza, ad avviso della Cassazione, la sanzione reintegratoria è l’unico strumento di rimedio a fronte di un licenziamento illegittimo, laddove la sola tutela risarcitoria mediante riconoscimento di un indennizzo economico non è idonea a rimuovere il pregiudizio arrecato all’interesse collettivo.




Il controllo a distanza delle attività dei lavoratori


ANALISI GIURIDICA DELL’ISTITUTO

Nel nostro ordinamento sono presenti alcuni limiti per il datore di lavoro relativamente all’attività di vigilanza e controllo che può esercitare sui propri dipendenti. Esistono, infatti, il diritto alla riservatezza, la dignità personale, la libertà di pensiero, di espressione e di comunicazione.
Sul luogo di lavoro tali diritti sono tutelati dal Legislatore con la legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori), in particolare con gli articoli 4 (Impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo), 8 (Divieto di indagini sulle opinioni) e 15 (Atti discriminatori).
Tale disciplina è stata riformatadal c.d. “Jobs Act”, che ha modificato l’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

Prima della riforma (entrata in vigore il 24 settembre 2015), vigeva un divieto assoluto di utilizzo di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Tale divieto veniva meno solo nei casi in cui il datore di lavoro, per esigenze organizzative, produttive o di sicurezza del lavoro, intendesse installare nuove apparecchiature dalle quali potesse derivare un controllo a distanza dell’attività lavorativa dei dipendenti: in tal caso, era necessario il previo accordo con le organizzazioni sindacali o, in mancanza, l’autorizzazione delle articolazioni locali del Ministero del Lavoro territorialmente competenti.

Il nuovo testo della norma pone in evidenza due aspetti:
1) da un lato, l’impiego di impianti audiovisivi e di altri strumenti che consentono un controllo a distanza dell’attività dei lavoratori (quali impianti di videosorveglianza);
2) dall’altro, l’utilizzo di altri strumenti che il datore di lavoro assegna ai propri dipendenti per lo svolgimento della prestazione lavorativa (ad esempio, pc, telefoni, tablet), nonché gli strumenti di rilevazione degli accessi e delle presenze.

1) I primi (impianti audiovisivi e strumenti di controllo a distanza) continuano, come in passato, a poter essere utilizzati dall’imprenditore esclusivamente per esigenze di carattere organizzativo e produttivo, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale. Affinché la loro installazione ed il loro utilizzo sia considerato legittimo, è necessario che vi sia un accordo sindacale sulle modalità di utilizzo di tali apparecchiature (accordo stipulato, a seconda delle dimensioni dell’impresa, con le RSA o le RSU o con i sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale). Se tale accordo manca, il datore di lavoro deve ottenere la previa autorizzazione della Direzione Territoriale del Lavoro o del Ministero del Lavoro (si rivolgerà all’uno o all’altro a seconda delle dimensioni dell’azienda).

2) La seconda parte della norma, invece, legittima l’esercizio di un controllo a distanza (c.d. diretto) effettuato sugli strumenti utilizzati dal lavoratore per eseguire le proprie mansioni e sugli strumenti di rilevazione degli accessi e delle presenze (c.d. lettori badge). In questo caso, infatti, non c’è l’obbligo per il datore di lavoro di raggiungere una intesa sindacale o di ottenere l’autorizzazione ministeriale: il controllo è libero e può essere effettuato anche senza un’esigenza organizzativa o produttiva. In assenza di qualsiasi funzione di “filtro” attribuita alle organizzazioni sindacali o alla vigilanza del Ministero del Lavoro per mezzo della Direzione Territoriale del Lavoro, è il singolo lavoratore che dovrà verificare se il controllo è esercitato dall’imprenditore in modo legittimo ed eventualmente recarsi presso un sindacato o un legale per tutelare i propri diritti.

Oltre alla normativa giuslavoristica, il Datore di lavoro dovrà rispettare anche tutto l’impianto normativo relativo alla protezione dei dati personali, costituito dal Regolamento Europeo 2016/679, dal Codice Privacy (D.lgs. 196/2003) e dai provvedimenti emessi nel corso degli anni dall’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali.
Per non incorrere in sanzioni penali e civili il Datore di Lavoro dovrà mettere in atto delle corrette procedure interne per la gestione di tali dati, in primo luogo dovrà rispettare il dettato normativo dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori che prevede, al comma III, la possibilità di raccogliere le informazioni mediante gli strumenti utilizzati per rendere la prestazione di lavoro e di poterne disporre per tutti i fini connessi al relativo rapporto, purché sia stata fornita adeguata informazione al lavoratore sulle modalità d’uso dei dispositivi stessi e sui possibili controlli, il tutto nel rispetto dei principi sanciti dalla normativa vigente in tema di privacy.

Il datore di lavoro dovrà pertanto essere in grado di dimostrare come l’utilizzo delle tecnologie informatiche non rientri in un programma volto esclusivamente al controllo dell’attività del lavoratore. È bene ricordare che il controllo a distanza non sussiste solamente in presenza di impianti di videosorveglianza, ma anche in presenza di attività quali “la conservazione e la categorizzazione dei dati personali dei dipendenti relativi alla navigazione in internet, all’utilizzo della posta elettronica ed alle utenze telefoniche da essi chiamate”, come ribadito anche da una recente sentenza della Corte di Cassazione (sentenza 28.05.2018 n.13266).
L’uso degli strumenti di controllo dev’essere sempre contenuto nella portata e proporzionato.

Affinché il controllo a distanza possa ritenersi legittimo e i dati così acquisiti siano utilizzabili, è fondamentale fornire ai dipendenti un’informativa esaustiva in ordine all’uso degli strumenti aziendali, ai dati trattati, al loro utilizzo e conservazione, nonché circa le modalità con cui vengono eseguiti i controlli, che i controlli non abbiano ad oggetto l’attività lavorativa del dipendente e che siano effettuati ex post, a seguito del verificarsi di un comportamento illecito del lavoratore o comunque per la verifica di un’anomalia del sistema informatico. Non è infatti consentito un accesso indiscriminato al datore di lavoro agli strumenti informatici in uso al lavoratore.

I lavoratori devono essere sempre previamente informati del possibile controllo datoriale sulle loro comunicazioni anche via internet; per questo motivo diventa fondamentale adottare una privacy policy adeguata e calata nello specifico contesto e sarà perciò compito del datore di lavoro fornire al lavoratore una adeguata informativa relativa il trattamento dei dati personale (ex art. 13 Regolamento Europeo 2016/679).
Qualora il Datore di Lavoro contravvenga alle prescrizioni previste dal GDPR o dallo Statuto dei Lavoratori, potrà incorrere in sanzioni di carattere amministrativo e penale.

Trattamento dei dati biometrici: che cosa prevede il GDPR

A disciplinare il trattamento dei dati biometrici per applicazioni di controllo accessi e rilevazione presenze sono il GDPR – General Data Protection Regulation e il successivo decreto italiano di adeguamento (D.lgs. 101/2018).

L’art. 9, par. 1, del GDPR vieta – in linea generale – il trattamento dei dati biometrici, fatte salve alcune eccezioni. La prima eccezione prevede che l’interessato abbia autorizzato il trattamento.

Seguono, poi, altre eccezioni, che consentono l’utilizzo dei dati biometrici solo se necessario in ambito lavorativo o nell’ambito della sicurezza sociale e collettiva; se necessario per la protezione di un interesse vitale dell’interessato o di altra persona; se necessario in un procedimento giudiziario; se vengono rilevati particolari motivi di interesse pubblico o per motivi di sicurezza sanitaria, controllo e prevenzione di malattie trasmissibili e per la tutela di gravi minacce per la salute delle persone fisiche.

La seconda eccezione, in particolare, giustifica la presenza di sistemi basati su riconoscimento dei dati biometrici in ambito lavorativo per l’accesso ad “aree critiche”: pensiamo, ad esempio, a quelle zone, all’interno di una grande industria, in cui sono presenti macchinari dall’utilizzo pericoloso per i non addetti ai lavori oppure ai laboratori speciali all’interno degli ospedali, alle torri di controllo e alle aree speciali degli aeroporti o ai caveau delle banche.

Si tratta, in tutti i casi, di zone critiche, il cui ingresso deve essere protetto da un controllo accessi severo e altamente affidabile come quello di tipo biometrico. Che cosa accade, quindi, nel caso in cui si decida di adottare la tecnologia biometrica negli Uffici della Pubblica Amministrazione?

Videosorveglianza e biometria nella Pubblica Amministrazione: il NO del Garante Privacy 

La Legge Concretezza (19 giugno 2019, n. 56) in tema di “Interventi per la concretezza delle azioni delle pubbliche amministrazioni e la prevenzione dell’assenteismo”, aveva previsto, oltre a misure volte a migliorare le capacità e l’efficienza della Pubblica Amministrazione, diversi interventi per la prevenzione dell’assenteismo: impronte digitali a sostituzione del badge e, in più, l’installazione di telecamere di videosorveglianza a varchi di acceso. Più nel dettaglio, la Legge prevede che l’identificazione del dipendente avvenga tramite il riconoscimento delle impronte digitali, controlli dell’iride o riconoscimento vocale, sia in entrata che in uscita.

Chiamato a esprimere il proprio parere sullo schema di decreto riguardante, nello specifico, la prevenzione dell’assenteismo, il Garante della Privacy ha dichiarato che l’accoppiata rilevazioni biometriche- sistemi di videosorveglianza è “di dubbia compatibilità con le regole della Privacy europea e nazionale”.  

Relativamente all’adozione di telecamere di videosorveglianza per il controllo dei varchi, manca la proporzionalità tra tale misura e le esigenze organizzativo-produttive, di sicurezza sul lavoro e di tutela del patrimonio aziendale previste dal Provvedimento del Garante della Privacy del 2010, dallo Statuto dei Lavoratori, nonché dalla circolare n. 5/2018 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

Riguardo, invece, all’utilizzo di sistemi biometrici, mancano i presupposti indicati dal GDPR, ovvero fattori di rischio specifici, la presenza – e il ripetersi – di situazioni critiche, che potrebbero arrecare danno alle persone, all’ambiente e al patrimonio.

Insomma, secondo l’Autorità Garante, la motivazione “prevenzione dell’assenteismo” non regge, non giustifica la scelte di telecamere e di sistemi biometrici nella Pubblica Amministrazione. Tale scelta sembra, invece, andare verso il “controllo” del lavoro e dei comportamenti dei lavoratori, tassativamente vietato dalla normativa italiana e internazionale in tema di Privacy.