La Corte Costituzionale pone un freno alla protervia della Legge Madia

Vista superficialmente, la questione affrontata dalla sentenza della Consulta n.251/2016, emessa il 9 novembre u.s., può sembrare un argomento poco influente sui problemi assai più importanti e gravi che incombono sul Paese e sull’esito referendario del 4 dicembre.

E invece, mai come in questo caso si avvalora il vecchio detto che “nel dettaglio si ritrova il dito di Dio”, giacchè in realtà questa pronuncia contiene dei principi i cui effetti coinvolgono, direttamente ed indirettamente, il fulcro stesso del disegno che mira a trasformare l’ordinamento legislativo italiano in un regime sin troppo simile a quelli fascisti del tempo andato.

In breve: la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art.11 della Legge Delega n.124/15 (Legge Madia) giustamente, anche se deprecabilmente, considerata la “madre” (con cotanta “madrina”) di tutto l’armamentario renziano, propedeutico e preparatore del “gran balzo finale” della riforma della Carta del ’48.

Motivo della censura: la legge delega prevede solo la richiesta di un parere, da parte del Governo alle Regioni – in materie che spaziano dalla nomina dei dirigenti sanitari all’affidamento gestionale dei servizi pubblici locali – anziché l’avvio di una concertazione, al fine di raggiungere un accordo tra potere centrale e poteri locali, con reciproca parità di ruoli, funzioni e capacità decisionali.

La sentenza, in concreto, va a picconare una delle più becere e pervasive “innovazioni” dell’intera politica renziana, ossia ridurre a semplici pareri ciò che, viceversa, deve risultare da una composizione negoziata di diverse posizioni e diversi interessi.

Ed è ovvio che il “parere” – vedasi l’esempio del “nuovo” Senato dei nominati, dove il 90% delle funzioni è ridotta a tale “attività” – equivale a carta straccia, mentre l’intesa o accordo che dir si voglia ha un valore determinante per l’esercizio dei pubblici poteri e per la stessa forma dello Stato democratico.

Altamente significativa, ai fini di comprendere e prevedere lo scenario del dopo-riforma costituzionale, si mostra la reazione del premier: “cavilli legulei, impicci burocratici, sottigliezze irrilevanti”, ecc. sono state le sue migliori espressioni sull’operato di una Corte Costituzionale verso la quale il capo di governo di un Paese cosiddetto libero dovrebbe portare un po’ più di rispetto!

Come se non bastasse, Renzi ha assunto altresì l’atteggiamento del “grande castigatore”, imponendo nella riforma costituzionale la clausola di supremazia dello Stato sulle Regioni (e su tutto il resto!), che spazzerà via bagatelle di questo tipo, come se si trattasse di immondizie giuridiche e cascami post-democratici.

E’ ovvio che il premier sia particolarmente irritato dal fatto che la pronuncia della Consulta possa compromettere il suo “regno incantato”, specificamente rappresentato da alcuni Decreti attuativi. Primo fra tutti quello industriale, che gli regala superpoteri nella scelta delle grandi opere, o ancor di più dei grandi insediamenti, destinati, notoriamente, alle impazienti multinazionali (specie cinesi).

Non solo: la legge 124/15, che ha partorito ben 17 decreti e decretini in moltissime altre materie – dalla mutilazione delle Camere di Commercio agli enti di ricerca – rischia una lunga paralisi e, ancor peggio, porta allo scoperto gli abusi dell’istituto stesso della legge delega, perpetrati dal governo negli ultimi tempi.

Infatti, più volte Renzi si è vantato di non ricorrere al decreto legge per attuare le sue politiche di riforma. In realtà, ha fatto e fa di peggio, utilizzando proprio il sistema dei decreti delegati, che consente di far approvare un’unica legge – a colpi di voto di fiducia – la quale funge da fonte per innumerevoli mini-leggi ( i decreti delegati, per l’appunto) che passeranno automaticamente senza il benchè minimo rischio di opposizioni ed eventuali blocchi.

Ben diverso, invece, è il percorso dei decreti legge che rischiano di decadere in tempi brevissimi (60 giorni) e sono vulnerabili dall’ostruzionismo delle opposizioni, oltre a essere vincolati dai requisiti della necessità e dell’urgenza.

In definitiva, comunque, quale che possa essere l’esito referendario, difficilmente la trovata renziana delle deleghe “a comando” avrà vita facile dopo il 4 dicembre.